“Il cadavere giace sul greto del torrente Scatorbia subito dopo la chiusa”. Si apre così il verbale del medico Corrado Pierucci che esaminò il corpo di Venanzio Gabriotti dopo la fucilazione avvenuta il 9 maggio 1944 ad opera di un plotone della Guardia nazionale repubblicana. Fucilazione al petto anziché alla schiena: un morte più onorevole, come risultato delle intercessioni che cercarono invano di salvare la vita all’eroe della prima guerra mondiale diventato punto di riferimento dell’antifascismo altotiberino.
Nato a Città di Castello nel 1883, figlio di un garibaldino, Gabriotti si distinse nel primo conflitto mondiale, durante il quale ottenne molteplici decorazioni e rimase gravemente ferito. Fu poi presidente dell’Associazione mutilati e invalidi di guerra e fu attivo nell’associazionismo cattolico, divenendo anche segretario provinciale del Partito popolare. Era insomma un personaggio di rilievo della società tifernate già ben prima del suo impegno nella Resistenza, e fu in parte protetto nella sua attività di opposizione al regime fascista dal prestigio di cui godeva grazie alla fama che aveva conquistato al fronte. Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo essere stato tre i fondatori della Democrazia cristiana, fu il principale organizzatore del movimento democratico nell’Altotevere fino all’arresto e alla condanna a morte senza processo.
Sulla vita di Venanzio Gabriotti si è scritto molto, in particolare grazie agli approfonditi lavori del professor Alvaro Tacchini. Proprio aiutandoci con il volume di Tacchini Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti, in occasione dell’anniversario dell’esecuzione vogliamo ripercorrere le ore finali dell’esistenza del martire antifascista tifernate, a partire dal 1° maggio 1944, quando nelle aree sotto controllo partigiano venne celebrata la Festa dei Lavoratori. Gabriotti, che il giorno prima era stato ad Apecchio e a Sant’Andrea di Montebello, si recò a Morena, poi a Castelfranco e da lì a Pietralunga, dove era di stanza la brigata “San Faustino” comandata da Stelio Pierangeli. Gabriotti, che nonostante l’età non più giovane fece questi spostamenti a piedi, volle essere presente in quelle zone per svolgere il compito assunto poche settimane prima di rafforzare il coordinamento tra la Resistenza umbra e quella marchigiana.
Gabriotti tornò a Città di Castello il 2 maggio insieme al giovane Aldo Bologni, e con lui e Giuseppe Nicasi la serà dopo si recò a Morra per incontrare il comandante della brigata Garibaldi “Pio Borri” che operava nell’Appennino aretino, Sirio Rossetti. Nonostante le precauzioni la delegazioni tifernate fu per caso vista da un ex gerarca locale, cui Gabriotti stesso avrebbe in seguito imputato la “soffiata”. Il 4 mattina Gabriotti fu avvertito dell’imminente arresto, ordinato, secondo la testimonianza del comandante della Guardia nazionale repubblicana Dorando Brighigna, dalle autorità tedesche. L’ordine fu eseguito il giorno 5: con grande sangue freddo, proprio durante l’arresto Gabriotti riuscì ad occultare importati documenti, e il lavoro fu completato da alcuni suoi collaboratori subito dopo. Mentre il prigioniero veniva rinchiuso in camera di sicurezza, ad acuire le tensioni nel territorio capitò a Montone uno scontro a fuoco tra la brigata San Faustino e i tedeschi che, a bordo di due camion, vi si imbatterono sbagliando strada. Nella sparatoria rimase ucciso Aldo Bologni.
Il 7 maggio Gabriotti fu interrogato da Brighigna e da un seniore della milizia, che in seguito avrebbero cercato di sminuire il proprio ruolo nella vicenda e nello specifico nell’interrogatorio. Nel corso del colloquio arrivò la conferma dell’incontro del 1° maggio con Pierangeli, circostanza che il giorno 8 sarebbe stata sufficiente a un giovane sottotentente delle SS, l’altoatesino Hans Tatoni, per decretare per l’indomani la fucilazione. Tatoni non ritenne necessario un processo e non ascoltò le spiegazioni di Gabriotti, che avrebbe voluto ribadire che l’incontro si era limitato alla consegna di una lettera da parte del padre di Pierangeli per invitare il figlio a consegnarsi. L’ufficiale non lo fece parlare, estraendo perfino la pistola per farlo tacere.
Tentativi di evitare la fucilazione si ebbero nelle ultime ore per ragioni diverse. Da un lato Brighigna e altri miliziani tifernati, consapevoli che molti, a Città di Castello, non avrebbero perdonato loro la morte di Gabriotti, si recarono a Perugia dal leader del fascio umbro Armando Rocchi per chiedere un’intercessione perché il prigioniero venisse trasferito in Germania. Questo tentativo non andò in porto, così come la mobilitazione degli amici e collaboratori di Gabriotti e del vescovo Filippo Maria Cipriani. Secondo la testimonianza di quest’ultimo, la proposta di sostituire l’esecuzione con la deportazione in Germania aveva suscitato l’interesse degli ufficiali tedeschi, ma venne invece respinta con toni violenti da due ufficiali italiani.
Si arrivò così all’alba del 9 maggio, quando Venanzio Gabriotti fu condotto sul greto del torrente Scatorbia e lì raggiunto da undici colpi di fucile. Il corpo, come prevedeva l’ordinanza di Rocchi per i ribelli, fu sepolto senza cerimonie civili o religiose, con il luogo di inumazione indicato solo da un cippo numerato: era il 159 del quadro 11 del campo comune. Di questa uccisione nessuno avrebbe risposto (“Mussolini ha pagato per tutti”, avrebbe poi scritto un giornale socialista tifernate), perché il processo tenuto nel dopoguerra, tra ritrattazioni e reticenze, non arrivò a condannare gli imputati.
Restò comunque il ricordo e l’esempio di un instancabile promotore della democrazia, che divenne il simbolo intorno a cui si consolidò la vita pubblica cittadina all’indomani della Liberazione conquistata dopo poche settimane. La Repubblica italiana nel 1953 decise di insignirlo della medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Tra le motivazioni, anche il fermo rifiuto di fronte alle pressioni per rivelare i nomi dei membri del comitato clandestino: “Piuttosto che macchiarmi di una così ignobile bassezza darei la vita cento volte, non una”, rispose alla proposta del commissario prefettizio Orazio Puletti. Del resto aveva detto al compagno di cella Alberto Ivano Nardi che “per una Idea si può anche morire; anzi è la morte più bella. Mi rincresce solo che la mia opera venga stroncata troppo presto”. Lo stesso Nardi avrebbe descritto Gabriotti come un “parlatore affascinante, brioso e instancabile”, che in prigione, a pochissimi giorni dalla fine, “mi fece trascorrere un pomeriggio ed una serata deliziosi con la narrazione di innumerevoli gloriosi episodi della prima guerra mondiale”. E ne avrebbe ricordato l’auspicio: “Nel mondo di domani dovranno regnare la giustizia e la fraternità, non lo spirito di rappresaglia e di vendetta”.
A 78 anni da questi episodi, in Altotevere la memoria di Venanzio Gabriotti è ancora viva e Città di Castello, dopo due anni di limitazioni dovute alla pandemia, torna questa mattina a celebrare il proprio illustre concittadino con una serie di cerimonie pubbliche organizzate dal comune, dall’Istituto di storia politica e sociale intitolato al patriota tifernate e dalla locale sezione dell’Anpi. Il programma prevede alle ore 8.30 una messa celebrata da don Andrea Czortek presso la Cappella del Famedio del cimitero, poi il trasferimento in corteo al monumento sul luogo della fucilazione e a seguire la deposizione di corone presso la casa di via San Florido, la torre civica di Piazza Gabriotti e il busto in viale Vittorio Veneto.