La rilevazione è stata effettuata nel 2020, ma i risultati sono stati resi noti recentemente attraverso un’inchiesta giornalistica coordinata dal giornale francese Le Monde che ha portato all’individuazione di oltre 17.000 siti europei contaminati da PFAS (sostanze perfluoro alchiliche), cioè da composti chimici di sintesi con proprietà tensioattive utilizzati in diversi processi di lavorazione industriale. Di tale categoria fa parte anche il PFOS (perfluorottano sulfonato), ovvero un acido che solitamente viene usato per tessuti, tappeti e carta al fine di aumentare la resistenza a grasso, oli e acqua, oltre che nella produzione di semiconduttori, materiali fotografici, schiume antincendio, ecc.
Dai dati raccolti e pubblicati on-line nell’ambito dell’indagine denominata “Forever Pollution Project” è emerso che nelle misurazioni effettuate a Monterchi nella fauna ittica del torrente Cerfone ci sono, per appunto, concentrazioni di PFOS decisamente superiori alla media toscana: si parla infatti di 2.050 ng/kg (nanogrammi per ogni kg), quindi di un valore che di certo non può passare inosservato, se si considera che tali sostanze, come tutti i PFAS in genere, sono persistenti, bioaccumulabili e tossiche.
In Italia anche Greenpeace nei giorni scorsi ha pubblicato un report su questa categoria di “inquinanti eterni”, spiegando che in Europa il nostro Paese è uno dei più interessati da questo problema. Consultando i dati nazionali si può in effetti riscontrare che, per ciò che riguarda in genere i PFAS, il Veneto presenta sicuramente la situazione più grave. Seppur con una configurazione a macchie di leopardo, dati preoccupanti sono stati raccolti anche in altre regioni, come la Lombardia, il Piemonte, la Basilicata e la Toscana. Riguardo quest’ultima le concentrazioni più alte riguardano soprattutto alcune zone costiere e le aree di Pistoia, Prato e Firenze. Il dato di Monterchi sembra dunque più dislocato rispetto agli altri, anche se questa apparente eccezione trova una forma di conferma con i valori rilevati lungo il Tevere, in prossimità del ponte di Pistrino: qui il biota nel 2019 presentava un livello di contaminazione da PFOS di 280 ng/kg. Considerando anche questo valore è dunque lecito supporre che nell’Alta Valle del Tevere, in prossimità del confine regionale, possa esserci qualcosa che provoca queste eccessive concentrazioni: le nanoparticelle tossiche sono state, in entrambi i casi, rinvenute nei pesci, i quali muovendosi nei corsi d’acqua non rendono immediatamente individuabile la fonte (o le fonti) da cui si origina il problema. Ad ogni modo, le constatazioni certe che si possono fare sono due: i valori rilevati sono tra i più alti della Toscana e le cause di ciò sono da ricercare nel territorio altotiberino.
Al momento, per i PFAS (quindi anche per i PFOS) non ci sono riferimenti normativi con soglie massime di riferimento, ma solo delle linee guida stabilite da una direttiva europea (la 2020/2184) che dovrebbe entrare in vigore nel 2026. Al di là di questo, è evidente che essendo sostanze accumulabili e non smaltibili bisognerebbe arrivare a bandirne definitivamente l’utilizzo e ad evitare la benché minima presenza nelle acque e nel biota. Si dovrebbe quindi lavorare congiuntamente per questo obiettivo, non solo per un’esigenza di tutela ambientale, ma anche per evitare conseguenze nella salute umana: per quanto parziali, i dati raccolti fino ad oggi iniziano a mettere in relazione l’assimilazione di certe sostanze con problemi alla tiroide, danni al fegato e al sistema immunitario, diabete, elevati livelli di colesterolo e alcune tipologie di tumori. Dall’acqua, o da altri esseri viventi i PFAS possono infatti facilmente entrare nel corpo umano, accumulandosi permanentemente nel sangue prima ancora della nascita.
Di certo siamo ancora in una fase in cui, senza allarmismi ma in maniera consapevole e attenta, bisognerebbe indagare meglio questo problema, così da comprenderlo analiticamente e giungere all’individuazione delle relative contromisure. In sostanza questo è, peraltro, quanto hanno già suggerito di fare le tante associazioni della Toscana che ieri hanno congiuntamente sottoscritto una lettera, indirizzata al presidente Giani, all’assessore all’Ambiente Monni e ai gruppi consiliari regionali, con la quale si chiede di approfondire il problema, iniziando subito a lavorare una celere risoluzione. Alla luce dei dati rilevati nel Cerfone e nel Tevere, non sarebbe fuori luogo chiedere che ciò possa essere fatto anche in Valtiberina.