Era il 18 ottobre 1934 quando, all’ora di pranzo, andò in onda la prima puntata della trasmissione radiofonica dell’EIAR I quattro Moschettieri. La ascoltò anche Giovanni Buitoni, che ne colse le potenzialità promozionali e decise – primo caso in Italia – di farla sponsorizzare dalle aziende di famiglia, la Buitoni e la Perugina.
Il programma andò avanti per quattro anni accompagnandosi a molte iniziative collaterali, tra cui la pubblicazione di due volumi illustrati e soprattutto una raccolta di figurine che ebbe uno straordinario successo. I quattro Moschettieri si ispiravano al quasi omonimo romanzo di Dumas padre. Angelo Nizza e Riccardo Morbelli, definendosi i “Dumas nipoti”, diedero però al testo classico un taglio spiccatamente comico, aggiungendo tantissimi personaggi ben noti agli italiani dell’epoca, anche se per nulla legati alle vicende di D’Artagnan e compagni: ecco quindi comparire, solo per fare pochi esempi, Sherlock Holmes e Tarzan, Clark Gable e Otello, Buffalo Bill e Mata Hari.
Nell’aprile del 1935 una folla di 100.000 persone assistette alla discesa dei Quattro Moschettieri in mongolfiera presso il padiglione di Perugina e Buitoni alla Fiera di Milano, sancendo la grande popolarità della trasmissione. Popolarità che fu confermata nello stesso anno dalle 100.000 copie vendute dal volume illustrato dal disegnatore Angelo Bioletto, anche se fu tra il 1936 e il 1937 che il successo divenne travolgente.
A garantirlo furono le figurine inserite nelle confezioni dei prodotti Perugina e Buitoni. Acquistando pasta, cioccolatini e le altre specialità delle due aziende si poteva trovare uno dei cento esemplari disegnati dallo stesso Bioletto. Tanti i premi in palio per i collezionisti, fino al più ambìto: furono in 200 a raggiungere il traguardo dei 150 album completi che permettevano di vincere una Fiat Topolino.
Lo storico Renato Covino (curatore 20 anni fa di una mostra documentaria affiancata a un allestimento del Teatro Stabile dell’Umbria andato in scena a Perugia in occasione del 70º anniversario dei Quattro Moschettieri), sottolinea come il concorso legato alla raccolta di figurine “non fu un fatto circoscritto solo all’ambito pubblicitario, ma divenne un vero e proprio fatto di costume nazionale. Se ne interessarono giornali e riviste, vennero girati film che prendevano spunto dall’evento, presso i negozi della Perugina vennero aperte vere e proprie borse delle figurine, si pubblicarono giornali con le quotazioni delle stesse, che, in alcuni casi, vennero addirittura falsificate. L’Italia, come allora si disse, fu attraversata da una febbre moschettiera”.
All’interesse intorno al fenomeno contribuì anche la difficoltà a reperire alcuni esemplari: celebre fu il caso della figurina numero 20 che rappresentava il Feroce Saladino. La causa dell’estrema rarità del pezzo non è mai stata chiarita: si è parlato sia di deliberata strategia aziendale che di “pigrizia” di Bioletto che l’avrebbe disegnata in ritardo. Fatto sta che la ricerca del Feroce Saladino costituì l’apice di una sorta di mania collettiva, immortalata anche in un film del 1937 di Mario Bonnard: interpretata da una giovanissima Alida Valli, la pellicola è incentrata proprio sullo scompiglio generato dal ritrovamento della figurina numero 20.
In quello stesso 1937 la prima campagna pubblicitaria italiana “multimediale” (che utilizzò di fatto tutti i mezzi allora a disposizione) fu improvvisamente fermata per volontà del Ministero delle Finanze. Il programma venne chiuso, la maggior parte dei premi vietati, e in questo mutato contesto una nuova raccolta di figurine lanciata nel 1938 non incontrò i consensi precedenti. È di nuovo il professor Covino ad evidenziare le ragioni delle decisioni del governo, legate sia all’“effetto imitativo del concorso che coinvolse molteplici imprese con puri intenti speculativi”, sia alle proteste dei concorrenti. Ma c’è anche “un motivo ideologico e politico: il modello di consumi proposto dal concorso, i ricchi premi cui consentiva l’accesso, giudicati superflui dal regime, non potevano essere certamente in sintonia con le direttive della politica autarchica, si rischiava cioè di modificare i modelli di comportamento che il tardo fascismo voleva imporre”.