In questo periodo in Toscana è tornato ad animarsi il dibattito sui modelli di gestione dell’acqua. Ciò si deve essenzialmente al fatto che nel giro di pochi anni scadranno le concessioni con le attuali società a cui è stato affidato il servizio idrico e di conseguenza, soprattutto nei territori che vivranno per primi questo passaggio, si iniziano già a vedere nuove prospettive future. Tra queste rientra la multiutility toscana che gestirà acqua, rifiuti e gas nelle province di Firenze, Prato e Pistoia, il cui progetto – presentato lo scorso 26 gennaio – non è però rimasto esente di critiche, soprattutto da parte di coloro che, in linea con l’esito del referendum del 2011, vorrebbero una completa ripubblicizzazione della gestione dell’acqua.
È dunque la consapevolezza di vivere un momento cruciale che sta riaccendendo una discussione che però, in teoria, non avrebbe ragione di esistere: soltanto negli ultimi tredici anni sono infatti stati espressi politicamente, sia in maniera diretta che indiretta, indirizzi che un po’ a tutte le scale, da quella globale a quella locale, hanno frequentemente ribadito che l’acqua, essendo alla base della vita, rappresenta un diritto da garantire a tutti. Partendo da questo assunto risulterebbe dunque fuorviante, oltre che moralmente discutibile, adottare approcci e modelli di gestione volti principalmente a produrre un profitto e non un’equa ed efficace distribuzione della risorsa.
A livello mondiale il primo atto che ha sancito questi principi è la risoluzione che ha approvato l’Assemblea Generale dell’ONU il 28 luglio 2010, all’interno della quale l’accesso all’acqua potabile, così come quello ai servizi igienico-sanitari, è un diritto fondamentale dell’essere umano. Conseguentemente a ciò la stessa risoluzione ha riconosciuto per ogni individuo il diritto di poter accedere giornalmente in maniera gratuita ad almeno 50 litri di acqua. La stessa disposizione è stata poi recepita e formalizzata cinque anni dopo, l’8 settembre 2015, dal Parlamento Europeo.
In mezzo a queste due tappe in Italia c’è stato il referendum popolare del 12 e 13 giugno 2011, il cui esito è stato netto ed inequivocabile nel chiedere l’eliminazione del principio di “adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, quindi nella volontà di svincolare la gestione dell’acqua da qualsiasi logica di profitto.
Come per cascata anche a livello regionale, in seno all’Assemblea dell’Autorità Idrica Toscana, sono stati assunti atti che hanno recepito la volontà dei comuni toscani di ripubblicizzare la gestione del servizio idrico. Seppure in occasioni diverse e con modalità piuttosto variegate, la stessa cosa è avvenuta in diversi consigli comunali, dove sostanzialmente sono stati approvati atti d’indirizzo orientati nella stessa direzione: lo scorso 30 maggio, ad esempio, il Consiglio comunale di Sansepolcro ha approvato all’unanimità una mozione che sollecitava il Governo a ripensare l’articolo 6 del “DDL Concorrenza” affinché questo non scoraggiasse gli amministratori locali nelle scelte di affidamento in house dei servizi pubblici. Di fatto quindi anche la mozione di Sansepolcro ha ribadito, in maniera netta e condivisa, il principio di tutelare l’acqua come bene pubblico tramite la possibilità di una gestione diretta.
Sono tanti, dunque, gli atti d’indirizzo e gli orientamenti che nel corso del tempo hanno contribuito a rafforzare un approccio nei confronti di un bene comune, quello che più di tutti si lega alla vita su questo pianeta, che dovrebbe essere gestito senza intenti utilitaristici. Ma allora, in considerazione di tutto ciò, come è possibile che negli ultimi mesi, persino in una regione sensibile a certi temi come la Toscana, si vadano sempre più concretamente delineando modalità di gestione affidate a soggetti di diritto privato e, per giunta, quotati in borsa?