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La torre di Berta, monumento abbattuto ma simbolo più che vivo fra la gente

Alla vigilia dell’80º anniversario della distruzione abbiamo ripercorso la sua storia, il motivo della sua collocazione e l'origine della sua denominazione

L’allora piazza Vittorio Emanuele con la torre di Berta sulla destra (fine anni ’20)

Mercoledì 31 luglio saranno trascorsi 80 anni esatti dal suo bombardamento e in molti si ritroveranno alle 5 di mattina per ricordare all’ora esatta la scomparsa di uno dei grandi simboli della città di Sansepolcro: la Torre di Berta, che stava quasi al centro (c’era un motivo ben preciso che spiegheremo più avanti) della piazza oggi a essa intitolata. Un simbolo scomparso materialmente, ma non nel cuore dei borghesi: sono rimasti pochi, per ovvi motivi, coloro che l’hanno vista da bambini, ma l’affetto è stato tramandato e si è sparso anche e soprattutto fra coloro che, non essendo ancora nati, hanno visto la vecchia torre solo nelle stampe o nelle fotografie. Qualcuno in città è arrivato a sostenere che, per definirsi borghese vero, dovrebbe avere in casa una stampa con Torre di Berta.

Di certo, tante associazioni – culturali come sportive o di altro genere, comprese quelle di stampo politico – si sono ispirate alla torre per creare un proprio logo identificativo di Sansepolcro, altre invece usano il nome Berta per gli eventi che si tengono in piazza. Insomma, nel cuore dei cittadini di Sansepolcro la torre è rimasta in piedi e chissà dentro di noi quanto avremmo dato per poterla vedere dal vivo. I tedeschi lo hanno impedito in quella mattinata di fine luglio del 1944, lasciando un ultimo e marcato segno prima di allontanarsi, perché in agosto il Borgo rimase nelle mani di un comitato di cittadini che amministrarono di fatto la città, poi il 3 settembre – giorno della liberazione – sarebbero arrivate le truppe alleate per fissare le bandiere sul pennone.

In attesa delle celebrazioni programmate per l’80esimo anniversario della sua distruzione, vogliamo a nostro modo “omaggiare” la Torre di Berta, ripercorrendone la storia per ciò che riguarda le tappe salienti. La costruzione risale al XII secolo, per opera con ogni probabilità di un consorzio di famiglie del posto ed era in origine una torre angolare di un gruppo di edifici vicino all’abbazia benedettino-camaldolese di San Giovanni Evangelista. La sua altezza era di 38 metri e la piazza nella quale si affacciava, più piccola di quella attuale, era quella che vide sviluppare con il tempo il mercato degli ortaggi e che a inizio del XIX secolo assume appunto la denominazione di piazza delle Erbe, poi divenuta piazza Vittorio Emanuele II all’indomani dell’unità d’Italia. Il 1868 è l’anno chiave, perché vengono abbattuti gli edifici attaccati alla torre, che quindi si ritrova quasi al centro della nuova piazza venutasi a creare. Specifichiamo “quasi”, perché – essendo l’attuale piazza ricavata con la torre già esistente e non viceversa – era chiaro che potesse non trovarsi perfettamente al centro e quindi in una collocazione casuale. La strada che correva dietro gli edifici, tra le odierne Via San Giuseppe e Via Sant’Antonio, essendo quasi sempre in ombra, permetteva la conservazione della neve e per questo era denominata Agio dei Ghiacciari, nel quale c’erano le beccherie medievali.

Torre di Berta

Dopo l’isolamento, la Torre di Berta diviene il simbolo di Sansepolcro e, come tale, è riprodotta nelle prime cartoline e guide turistiche tra i secoli XIX e XX. Fausto Braganti, nel suo blog di memorie dal titolo “M’Arcordo”, si domanda: “la torre faceva parte d’una struttura di carattere militare, con in cima un terrazzo d’avvistamento merlato, ghibellino? Come tale, alla base era incorporata in un qualche castello. Parte di questo era ancora in piedi all’inizio dell’ottocento nel lato sudest assieme a casette. Nella facciata del palazzo nel fondo della piazza, angolo via dei Servi con via Sant’Antonio, si vede ancora una gran finestra, ma che un tempo doveva essere una porta. Ma chi costruisce una porta al primo piano d’un palazzo? Doveva avere altre funzioni, come quella di collegamento, magari attraverso un arco al castello della Torre di Berta”. E poi, Braganti arriva alla deduzione: “Quando tutti gli edifici che la circondarono furono abbattuti, questa rimase isolata nel mezzo d’una piazza che prima non esisteva. Non credo che ci siano molti esempi di torri che si levano da sole e non facenti parte di castelli o mura. La base della torre si indebolì enormemente, rendendola pericolosa, in particolar modo a Sansepolcro, zona tellurica”.

Vi fu anche Livio Galardi che a suo tempo chiese l’abbattimento della torre per motivi di “sicurezza pubblica e pubblica moralità”: eravamo nel 1890 e quello della sicurezza era un problema oggettivo, dal momento che – così risulta – il vento avrebbe fatto cadere grandi pietre e che il timore principale fosse quello dei terremoti. Relativamente alla moralità della quale si è parlato, il riferimento è alla base della torre, spesso utilizzata in modo incivile come una sorta di orinatoio. Una volta abbattuta la torre, al suo posto sarebbe stata posizionata una fontana oppure il monumento a Piero della Francesca, per il quale si stava impegnando la cittadinanza: queste le proposte avanzate, che sembravano aver incontrato l’ok dei consiglieri comunali, poi però la torre non venne abbattuta e il monumento a Piero della Francesca dello scultore Arnaldo Zocchi fu innalzato nel giardino omonimo due anni dopo, nel 1892, in occasione del 400esimo anniversario della morte dell’artista.

La torre in piazza aveva anche il compito di scandire la giornata con i rintocchi della campana chiamata Bonaventura e, siccome in pochi portavano l’orologio al polso, era il riferimento principale – ad esempio – per i ragazzi che dovevano al mattino entrare a scuola, avendo un grande orologio le cui lancette sono state recuperate a distanza di anni, incorniciate ed esposte a Palazzo delle Laudi. Già, ma perché la denominazione “Torre di Berta”? La versione tradizionale, che è anche quella più “accattivante”, individua in Berta il nome di una ragazza, non baciata dalla fortuna, che fosse fidanzata con un giovane di Pieve Santo Stefano ma che, a causa della rivalità fra le rispettive famiglie, avesse vissuto un amore combattuto e contrastato proprio per questo motivo. C’è anche la tesi di alcuni studiosi locali del secolo scorso, in base alla quale la torre avrebbe indicato il luogo nel quale venivano messi alla berlina i condannati nel Medioevo.

Sulla torre e sulla piazza ha lasciato molte testimonianze scritte Arduino Brizzi, storico e persona affezionata al Borgo in maniera viscerale. Nel suo libro, dal titolo “La Piazza”, emerge a chiare note l’attaccamento verso questo monumento simbolo. “In quei giorni che precedettero purtroppo il bombardamento – riporta Beppe Fanfani ispirandosi proprio agli scritti di Brizzi – tutti gli uffici erano chiusi o abbandonati: chiusa la caserma dei Carabinieri, chiusi gli uffici e la banca, la farmacia distrutta dai bombardamenti, la grande fabbrica diventata cenere. Rovine dappertutto. Non c’era rimasto nulla; solo i predoni forestieri e nostrani. La piazza era grande e, la torre, solitaria al suo centro, disegnava con la sua ombra il passar delle ore e delle stagioni…. ’Vedi‘, insegnavano i vecchi ai citti…, ’l’ombra ha raggiunto le finestre del vescovado…, il sole cala all’orizzonte…viene l’autunno’… Ma in quei giorni non c’era nessuno; solo qualche cristiano che attraversava di corsa da un cantone all’altro per restare al riparo, nessuno che si arrischiasse ad andare allo scoperto in piazza, e così la torre si sentiva sempre più sola; la sua ombra era restata l’unica compagnia… ‘meno male che ci sei tu’. In quella solitudine era passato anche il giorno del 30 luglio 1944…”.

Pochi giorni prima, il 22 luglio, era stata liberata Città di Castello e le truppe anglo-indiane erano oramai vicine, ma un cambio di programma le dirottò verso il Casentino e quindi i tedeschi furono liberi di agire con la rabbia addosso e, fra le voci che si sparsero, c’era anche quella sull’intenzione di radere al suolo Pieve Santo Stefano, che in effetti il 23 agosto 1944 era un ammasso di macerie con la sola chiesa della Collegiata, il palazzo comunale e l’Arco di Tasano rimasti in piedi. La furia distruttrice che animava le truppe tedesche per il tradimento degli ex alleati italiani aveva consigliato alle persone di sfollare dalle città per non farsi trovare e di tornarvi solo sporadicamente per controllare la situazione delle proprie case. D’altronde, i tedeschi avevano fatto saltare il ponte ferroviario sul Tevere e quello di San Martino lungo il corso dell’Afra per mettere in difficoltà gli alleati che provenivano da sud. A Sansepolcro si parlava di minare case e fabbriche, compresa la Buitoni con la sua ciminiera: gli stessi alleati, salendo verso nord, bombardavano gli obiettivi strategici e quindi aggiungevano distruzione a distruzione.

Quel 31 luglio del 1944, furono i seminaristi a occupare la piazza e a gridare ai pochi rimasti in paese: “Scappate scappate, perché minano la torre!”. Da quel momento, fu silenzio profondo fino alle cinque, ora nella quale la fortissima esplosione fece saltare in aria la torre. Un’autentica sassaiola dentro il centro storico – sta scritto – con una nuvola densa e bianca che colora la notte. E quando svanisce, ecco la cruda realtà: la torre non c’è più e la campana Bonaventura era sotto un mucchio di sassi, rotta in tre pezzi. Furono a mezzogiorno i suoni del campanone del duomo e di quello di San Francesco a dare l’ultimo saluto alla Bonaventura. I soldati tedeschi in ritirata avevano imbottito di esplosivo il piano terra; a volere l’eliminazione della torre – aveva sostenuto Arduino Brizzi – sarebbe stato in primis il colonnello Lothar Berger, comandante del gruppo di soldati tedeschi, al quale non sarebbe andata giù la collocazione, in uno dei lati, della lapide commemorativa della vittoria sugli austriaci nella prima guerra mondiale. L’operazione, del tutto ingiustificata sul piano delle operazioni militari, fu una rappresaglia contro Sansepolcro, nel tentativo – risultato poi vano – di far crollare l’intera area attorno, compresi la cattedrale, il palazzo vescovile, il palazzo comunale e il vicino tribunale.

Da quel giorno, però, l’antica torre nel cuore della città non c’era più e anche i tentativi di ricostruzione proposti negli ultimi anni non hanno avuto un seguito. Si è pensato di evidenziare i quattro angoli e il perimento per ricordare a tutti dove esattamente era ubicata, ma tutto è finito lì; anzi, dal marzo del 2022 in mezzo alla piazza ci sta il dodecaedro, omaggio congiunto ai due figli più illustri di Sansepolcro: Piero della Francesca e Luca Pacioli. Ma la Torre di Berta rimane immortale e lo rimarrà anche fra le generazioni future, grazie all’affetto dei biturgensi che ad essa hanno riservato un pezzo del loro cuore.

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