Sono trascorsi quattro mesi da quando la Deposizione realizzata da Rosso Fiorentino, pseudonimo di Giovan Battista di Jacopo di Gasparre, è tornata a Sansepolcro e in questo lasso di tempo si stima che siano davvero tante le persone recatesi nella chiesa di San Lorenzo per ammirare l’opera: al momento, dato che gli accessi sono liberi, non si dispone di numeri che possano fornire dettagli sull’entità di tale flusso, ma anche solo attraverso dei semplici riscontri in loco è innegabile che questo sia decisamente cospicuo.
Oltre a ciò, è altrettanto evidente che con tutta l’aspettativa che si era creata, la fine del restauro ha riportato molta attenzione attorno alla suggestiva Deposizione di Sansepolcro e, più in generale, sul Rosso Fiorentino. Oltre alla struggente bellezza del dipinto, a suscitare tutto questo interesse sono probabilmente anche i suoi particolari carichi di inquietudine, dietro i quali si celano talvolta indecifrabili significati simbolici. Del resto, come più volte è stato evidenziato, nel suo complesso l’opera restituisce, in maniera tetra e originale, una cruda rappresentazione del mistero del corpo di Cristo calato dalla croce. Quello di Sansepolcro è dunque un Rosso caratterizzato da uno stile diverso da quello precedente, che probabilmente risente dell’esperienza, piuttosto traumatica, che il pittore aveva vissuto a Roma durante il sacco dei lanzichenecchi del 1527: è proprio in seguito a questo avvenimento che lo stesso si trasferì prima a Perugia, poi a Sansepolcro (sotto la protezione del vescovo Leonardo Tornabuoni), dove rimase, seppur non continuativamente, per un paio di anni.
Durante questo periodo l’artista trascorse del tempo anche a Città di Castello, dove nel luglio del 1528 ricevette la commissione per realizzare la maestosa tavola del Cristo risorto in gloria, oggi visibile presso il Museo Diocesano. Dopo una gestazione piuttosto lunga, l’opera fu completata a Sansepolcro subito dopo la Deposizione di San Lorenzo. Proprio per questa vicinanza temporale e per lo stato d’animo che il pittore si trovava a vivere in quel periodo, i due dipinti presentano, nella diversità che li caratterizza, alcuni elementi comuni: si tratta essenzialmente di quegli aspetti stilistici che caricano di pathos entrambi i lavori, degli elementi a volte quasi al limite del bizzarro, degli interrogativi irrisolvibili, della luce appena accennata e delle cupe cromie che sembrano avvolgere entrambe le scene rappresentate.
Il Cristo risorto in gloria di Città di Castello è un’opera che nel tempo ha sofferto una certa marginalità: il fatto che la stessa fosse rimasta incompiuta (senza gli angeli che la committenza avrebbe voluto all’interno della pala) e i toni decisamente poco rassicuranti di cui sopra, rendevano il dipinto religiosamente poco idoneo a celebrare il Cristo risorto. Superate tali controversie, con il tempo l’opera ha saputo attirare l’attenzione del pubblico e dei critici. Con le sue numerose chiavi di lettura, l’attuale periodo storico sembra addirittura offrire l’opportunità di trasformare quegli aspetti che un tempo erano ritenuti più critici, in elementi di estrema modernità: il non finito, i colori particolarissimi, i complessi aspetti simbolici e iconografici possono, dunque, oggi essere visti come occasioni per rileggere non soltanto l’intera vicenda pittorica del Rosso, ma anche le questioni biografiche ed esistenziali che più ne influenzarono i processi creativi.
Tutto questo con il doppio valore che la distanza tra Città di Castello e Sansepolcro concede eccezionalmente, nel giro di pochi km, la possibilità di uno stimolante raffronto attraverso il quale è possibile leggere, apprezzare e capire compiutamente un pittore di caratura eccelsa che ha verosimilmente saputo nutrirsi di tutti quegli stimoli che l’Alta Valle del Tevere era in grado di dare nella prima metà del XVI secolo.