L’ultima lezione, dopo i precedenti consumatisi nell’arco di secoli, è servita a Pieve Santo Stefano. Era il 18 ottobre 1998, una domenica di pioggia autunnale. Tanta pioggia, soprattutto: in serata, il livello del Tevere cominciò a ingrossarsi al punto tale da esondare e da riversare l’acqua nel centro del paese. I pievani, con in testa il sindaco Albano Bragagni, dovettero per tre giorni indossare stivali e munirsi di badili e altri attrezzi per spalare le strade da fango e melma e per riportare la situazione alla normalità.
Non fu, per fortuna, un’emergenza alla pari di quelle che purtroppo si sono riscontrate anche di recente in Lombardia e in Emilia Romagna, però il segnale chiaro arrivò ugualmente: senza un’adeguata prevenzione e manutenzione, vedi pulizia degli alvei ed eliminazione della vegetazione che può intralciare i corsi d’acqua, determinate situazioni possono riproporsi. Furono infatti rami, tronchi e altro materiale trascinato a valle a incastrarsi fra i ponti di Pieve e a far tracimare il Tevere.
Quello con le alluvioni è un rapporto ultrasecolare per Pieve Santo Stefano: lo storico ne registra diverse (e anche più gravi rispetto all’evento di 26 anni fa), quindi facciamo un viaggio a ritroso per poi arrivare all’odierna situazione.
La “convivenza” con le alluvioni e la tragedia del 1855
Quella del 1855 è senza dubbio l’alluvione peggiore subita sia da Pieve Santo Stefano che dall’intera vallata; prima ancora, si hanno notizie relative al settembre del 1557 (dal momento che viene inoltrata la richiesta di poter ricostruire la chiesa di Sant’Agostino a Formole, essendo stata demolita dalla inondazione del fiume Tevere), poi al giugno del 1638: il canonico Giovanni Sacchi, scrive che “ci furono delle abbondanti piogge e il Tevere dentro Pieve ruppe il ponte, spezzò la porta, portò via il banco della dogana e varie case e i mulini furono atterrati”.
Altre inondazioni sono datate 1762 e 1764, ma la storia annota in primis la data del 14 febbraio 1855: siamo di notte e la pioggia incessante con assieme fiocchi di neve, dopo che nei giorni precedenti vi erano state anche scosse di terremoto, fa scivolare a valle una parte della zona collinare di Belmonte, sopra il paese e sul versante della chiesa della Madonna dei Lumi, andando a ostruire il corso del Tevere, il cui livello arriva ad alzarsi fino a toccare i 17 metri; come dire, paese sommerso, salvo qualche tetto e il campanile della chiesa, che riescono a spuntare dal grande specchio di acqua che si è formato. La frana non si arresta e gli abitanti debbono lasciare la zona: prima della mezzanotte del 16 febbraio, Pieve Santo Stefano è completamente ricoperta dalle acque. Giuseppe Collacchioni e i figli Gio. Battista e Tommaso si danno da fare per riuscire a salvare almeno la libreria e gli arredi sacri dei Padri Minori Osservanti.
La mattina del 17 febbraio c’è nebbia, ma allo stesso tempo continua a piovere e fa molto freddo, con le temperature che oscillano di poco sopra lo zero. Pieve non esiste più: è un lago, un’ampia superficie completamente ricoperta dall’acqua. La frana si ferma al terzo giorno, quando però oramai è tardi. Non si hanno notizie, sulle prime, delle sette persone che non hanno lasciato il paese: di queste, ne moriranno quattro e sono le vittime della tragedia. Come quattro sono le opere d’arte che vanno perse: una “Misericordia” realizzata da Piero della Francesca, una “Natività” attribuita al Ghirlandaio, la “Passione” – ritenuta opera di Raffaellino dal Colle – e una “Santa Lucia” realizzata da Luca Signorelli. Se queste vanno completamente perdute, seri danni vengono riportati da altre due che rappresentavano altrettanti momenti di processione di Angeli di Santi di Tito.
Ma c’è un aspetto che non può e non deve passare in secondo piano: quello legato alla Madonna dei Lumi, che rimane praticamente illesa. Pieve Santo Stefano è nel caos più completo, poiché l’alluvione ha causato anche danni irreparabili. Della questione si occupa il Granduca Leopoldo II, visitando di persona il paese e ordinando subito dei lavori che agevolassero il deflusso delle acque: proprio per questo, vengono realizzati due fossati laterali, in modo tale che l’acqua possa uscire rapidamente, abbassando il livello nel centro del paese.
Tutta la Toscana dimostra nei confronti di Pieve Santo Stefano un grande spirito di soccorso e in tanti inviano soldi per alleviare lo stato pietoso in cui si trovavano i pievani. Sta di fatto che nel giro di poco tempo vengono raccolte, comprese quelle del Granduca, 107.735.19,19 lire e la gestione di questa importante somma viene affidata al vescovo di Sansepolcro, monsignor Giuseppe Singlau, insieme al prefetto di Arezzo e al delegato di governo. E come se non bastasse, all’alluvione si aggiunge un’epidemia colerica e i pievani sono costretti a un esodo di massa. Le vittime per il morbo asiatico sono in totale 30 e per la maggior parte si tratta di bambini.
Tre anni più tardi, nel 1858, arriva la proposta del rialzamento del paese nella parte più bassa (zona del ponte nuovo) per impedire l’invasione delle acque del Tevere e di elevazione “di braccia una e mezza” della strada principale che proprio dal ponte nuovo conduce alla piazza del Pretorio, l’attuale piazza Plinio Pellegrini. Viene incaricato un ingegnere del compartimento di Arezzo, per far sì che elabori un rapporto estimativo. Così poi va a finire: in alcuni punti del paese, è visibile ancora il vecchio selciato della strada, in particolare lungo via del Garbo, dove in quelle che oggi sono cantine sotto il livello della strada vi erano allora gli appartamenti. Negli anni successivi, Pieve Santo Stefano andrà incontro a una sorta di livellamento, con la parte più alta che viene abbassata e quella più bassa che viene rialzata.
Ottobre 1998: l’ultima grande paura, poi la messa in sicurezza
Anche il 18 ottobre 1998 tutto avviene quando il buio è già calato e stavolta le frane non c’entrano: è il Tevere che, a seguito delle intense ed eccezionali precipitazioni, esce dal suo letto intorno alle 22 all’altezza del ponte vecchio, del ponte nuovo e pure nell’ex asilo infantile “Umberto I”, inondando gran parte del paese di Pieve Santo Stefano. Una testimonianza importante arriva direttamente da una relazione del Centro Studi Storici e Ricerche Archeologiche di Pieve, la cui sede si trova proprio nell’ex asilo e viene ricoperta da più di un metro d’acqua e melma.
Vi sono dei danneggiamenti importanti, nella maggior parte irreparabili. Un’alluvione a suo tempo annunciata, non soltanto perché da giorni le piogge stavano cadendo in quantità copiosa, ma perché a monte di Pieve chi avrebbe dovuto eseguire le necessarie opere di manutenzione non lo aveva fatto. La corrente a regime ancora torrentizio del Tevere aveva quindi trascinato appresso tutta la vegetazione e anche rami di alberi e frasche, ingrossandosi sempre più; quando il materiale attraversa il centro abitato di Pieve Santo Stefano, incontra nei due ponti del paese altrettanti “tappi” che impediscono il deflusso dell’ingente volume, alto praticamente quasi quanto le sponde; di conseguenza, acqua e detriti esondano e invadono le vie del paese. In qualche punto, l’acqua arriva ai 180 centimetri e a uscire non è soltanto il Tevere, ma anche i suoi affluenti, con danni ingenti al sistema delle numerose opere idrauliche presenti nei corsi d’acqua, alle infrastrutture e a strade, ponti e linee elettriche, oltre che alle attività commerciali e alle abitazioni. L’ammontare totale delle conseguenze è pari a 45 miliardi di lire. Sempre nel territorio comunale di Pieve Santo Stefano, una frana importante si verifica nella zona di Valsavignone.
Quell’alluvione matura più che mai la consapevolezza di non dover più indugiare per evitare di ricadere in una circostanza del genere: viene pertanto abbassato il fondo del Tevere a scopo puramente preventivo e adesso la stessa quantità di acqua e fango trascinata quella sera del 18 ottobre ’98 passerebbe tranquillamente sotto i ponti. Oggi si lavora molto, poi, anche sulla prevenzione, sia con il monitoraggio meteorologico che con gli strumenti posizionati sul territorio, ma anche con il collegamento ai servizi nazionali e regionali di carattere istituzionale. I dati del monitoraggio servono per definire le fasi di emergenza, con l’attivazione dei servizi e degli interventi previsti.
Se la situazione atmosferica dovesse peggiorare, verrebbero allertati la sala operativa provinciale e i sindaci dei Comuni interessati, oltre al personale di intervento e alle ditte del territorio individuate in fase di programmazione. Da quell’ottobre del 1998, non è più accaduto nulla e le abbondanti precipitazioni non incutono più alcun tipo di paura fra i cittadini di Pieve Santo Stefano.