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Mezzo secolo dal referendum sul divorzio: una svolta decisiva per i diritti civili

Quasi il 60% degli italiani votò “No” all’abrogazione della legge Fortuna-Baslini, decretando anche la sconfitta politica di Democrazia Cristiana e Movimento Sociale

Giornali dell'epoca (foto gentilmente concesse dall’Istituto Venanzio Gabriotti)

Domenica 12 e lunedì 13 maggio: sono trascorsi 50 anni esatti, anche nei giorni della settimana, dal primo referendum tenutosi nell’Italia repubblicana, quello sul divorzio. Due giorni tanto attesi, perché era in ballo una questione di diritto civile con implicazioni morali e religiose, ma con inevitabili ripercussioni anche dal punto di vista politico; gli italiani vennero chiamati a dire la loro non con un pronunciamento diretto (della serie: siete favorevoli al divorzio oppure no?), ma vincolato dalla presenza di una legge in materia che esisteva da oltre tre anni. Nel nostro Paese, quindi, il divorzio era già legale e in quel referendum – di carattere abrogativo – gli italiani erano stati chiamati a dire la loro sulla cancellazione o meno della legge nota come Fortuna-Baslini, dai cognomi dei due primi firmatari.

Un passaggio chiave, questo, per chi andava al voto, al fine di non creare equivoci che avrebbero potuto generare un esito della consultazione diametralmente opposto rispetto alle volontà. Come più spesso anche gli spot televisivi informarono nei giorni antecedenti alla consultazione, chi in pratica era favorevole al divorzio avrebbe dovuto votare “No”, perché significava “No” all’abrogazione della legge sul divorzio e chi invece era contrario avrebbe dovuto apporre la crocetta sul “Sì”, perché significava appunto “Sì” all’abrogazione della legge. Risultato: la vittoria dei “No” fu netta.

Furono 19 milioni e 138300 gli italiani che si espressero per il “No”, pari a quasi il 60% (59,26% per l’esattezza), mentre si fermarono a 13 milioni e 157558 coloro che votarono “Sì”, ossia il restante 40,74%. Elevata l’affluenza alle urne, pari all’87,72% degli aventi diritto (ricordiamo che la maggiore età era ancora fissata a 21 anni, per cui poteva votare solo chi li aveva compiuti) e a rendere effettiva la vittoria del “No” fu la considerazione successiva: se anche quel 12,28% di assenti si fosse recato a votare e avesse scelto solo il “Sì”, il “No” avrebbe comunque prevalso con il 50,83% dei consensi. Una vittoria effettiva, quindi e legittimata in pieno dai numeri, perché tale sarebbe stata anche sull’intero corpo elettorale, oltre che sui votanti. Il divorzio fra coniugi era quindi definitivamente consentito; oggi è un istituto al quale si ricorre con frequenza, allora invece era più un caso eccezionale che altro, di quelli che senza dubbio alimentavano discussione e pettegolezzi, perché comunque ogni passo compiuto deve essere inquadrato nel determinato momento storico di riferimento e nel contesto di una Italia nella quale fino a poco tempo prima esistevano il carcere per chi abbandonava il tetto coniugale ed era legalizzato il cosiddetto “delitto d’onore”. La voglia di dare però una lettura più moderna e civile a un mondo che si stava evolvendo diventò una forte scossa alla vittoria del “No”, per il quale si espressero anche coloro che nella vita erano felicemente sposati ma che non ritenevano giusto dover privare della possibilità di voltare pagina chi non era stato altrettanto fortunato e chi soprattutto aveva anche motivi oggettivi (pensiamo alla violenza domestica) per chiedere separazione e divorzio, ipotesi che anche per i sostenitori dell’indissolubilità del matrimonio appariva comunque ragionevole. Perché insomma continuare a soffrire solo per una mera questione di facciata o per tenere forzatamente in piedi un rapporto solo perché esiste un contratto scritto? La vittoria del “No” stette a significare proprio questo, almeno 50 anni fa, ma ripercorriamo le fasi che portarono al referendum.

Le tappe del referendum

Era il 1° dicembre del 1970 quando il Parlamento dette l’ok alla “disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio” con l’approvazione della legge numero 898, i cui promotori erano i deputati Loris Fortuna, socialista e Antonio Baslini, liberale. In quel momento, il fronte sociale e quello politico italiano erano fortemente divisi: da una parte, le forze laiche e liberali, le avanguardie più radicali (femministe comprese) e parti consistenti del Partito Comunista, orientate verso una trattativa con la Democrazia Cristiana e con l’ala socialista di Francesco De Martino. Oppositori della legge erano la Democrazia Cristiana e il Movimento Sociale, seppure parte del mondo cattolico si fosse dichiarata favorevole: alludiamo alle Acli e ai cattolici democratici di Mario Gozzini. I movimenti cattolici, i comitati civici e Comunione e Liberazione erano allineati con la Cei, mentre il Vaticano aveva pensato inizialmente al progetto di un divorzio ammissibile per i matrimoni civili e vietato per i matrimoni concordatari; l’idea era piaciuta a Giulio Andreotti, ma aveva i suoi difetti anche per la Chiesa, che temeva – con questa normativa – di incentivare e incrementare in forma involontaria i matrimoni civili.

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